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— e sempre io rimaneva immobile in quella camera solitaria, — sempre seduto, sempre sepolto nella mia meditazione fittissima; — e sempre in fantasma quei denti lì lì a librarmisi intorno, a mantenere quegl’influssi, così che la larva vivissima e ributtantissima volteggiava qua e là a traverso la luce e le ombre cangianti della camera.

In fine, a mezzo di questi sogni, scoppiò un grido di grande orrore, di grande spavento, a cui dopo una breve pausa successe un rumor di voci desolate, interrotte da gemiti di sordo dolore e di straziante affanno. Mi rizzai su e, aprendo una delle porle della biblioteca, incontrai nell’anticamera un famiglio tutto in lagrime, il quale mi annunziò che Berenice era morta. Colpita d’epilessia al mattino, aveva soccombuto; ed ora, al venir della sera, la fossa attendeva l’ospite novella: e già tutti i preparativi della sepoltura eran compiti....

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Pieno il cuore d’angoscia, oppresso dal terrore, con forte ripugnanza diressi i miei passi verso la camera da letto della defunta. Questa camera era ampia e tetra, e ad ogni passo inciampava nei preparamenti della sepoltura. Le cortine del letto, mi disse un famiglio, essere chiuse sopra la bara, nella quale — aggiunse con voce bassa e commossa — giace tutto quanto resta della Berenice. — Chi è dunque che mi chiese se voleva vedere il cadavere di lei?

Stravaganza! Nessun labbro si era mosso, nè io lo vidi, almeno; e tuttavia questa domanda erami stata propriamente rivolta, e l’eco delle ultime sillabe vibrava ancora nella camera. Essendo impossibile un rifiuto, fu con gran sentimento d’oppres-