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avrà suggerito lei, proprio lei, al Ferro, di pretendere almeno la pelle della tigre. Come «almeno»? Ma sì! Ch’ella gli abbia detto «almeno», mi sembra proprio indubitabile. Almeno, cioè in compenso dell’ansia angosciosa che le costerà la prova, a cui egli s’esporrà. Non è possibile che sia venuta in mente a lui, a Carlo Ferro, l’idea d’aver la pelle della belva uccisa per metterla sotto i piedini della sua amante. Non è capace, Carlo Ferro, di tali idee. Basta guardarlo per convincersene: guardare quel suo nero testone villoso e burbanzoso di caprone.

Egli sopravvenne, l’altro giorno, a interrompere la mia conversazione con la Nestoroff innanzi alla gabbia. Non si curò nemmeno di sapere di che cosa noi stessimo a parlare, come se per lui non potesse avere alcuna importanza una conversazione con me. Mi guardò appena, accostò appena la cannuccia di bambù al cappello per un cenno di saluto, guardò con la solita sprezzante indifferenza la tigre nella gabbia, dicendo all’amante:

— Andiamo: Polacco è pronto; ci aspetta. —

E voltò le spalle, sicuro d’esser seguito dalla Nestoroff, come un tiranno dalla sua schiava.

Nessuno più di lui sente e dimostra quell’istintiva antipatia, ch’io ho detto comune a quasi tutti gli attori per me, e che si spiega, o almeno, io mi spiego come un effetto, a loro stessi non chiaro, della mia professione.

Carlo Ferro la sente più di tutti, perchè, tra tante altre fortune, ha quella di credersi sul serio un grande attore.