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un intero esercito d’uomini e di donne: operatori, tecnici, custodi, addetti alle dinamo e agli altri macchinarii, ai prosciugatoi, all’imbibizione, ai viraggi, alla coloritura, alla perforatura della pellicola, alla legatura dei pezzi.

Basta ch’io entri qui, in quest’oscurità appestata dal fiato delle macchine, dalle esalazioni delle sostanze chimiche, perchè tutto il mio superfluo svapori.

Mani, non vedo altro che mani, in queste camere oscure; mani affaccendate su le bacinelle; mani, cui il tetro lucore delle lanterne rosse dà un’apparenza spettrale. Penso che queste mani appartengono ad uomini che non sono più; che qui sono condannati ad esser mani soltanto: queste mani, strumenti. Hanno un cuore? A che serve? Qua non serve. Solo come strumento anch’esso di macchina, può servire, per muovere queste mani. E così la testa: solo per pensare ciò che a queste mani può servire. E a poco a poco m’invade tutto l’orrore della necessità che mi s’impone, di diventare anch’io una mano e nient’altro.

Vado dal magazziniere a provvedermi di pellicola vergine, e preparo per il pasto la mia macchinetta.

Assumo subito, con essa in mano, la mia maschera d’impassibilità. Anzi, ecco: non sono più. Cammina lei, adesso, con le mie gambe. Da capo a piedi, son cosa sua: faccio parte del suo congegno. La mia testa è qua, nella macchinetta, e me la porto in mano.

Fuori, alla luce, per tutto il vastissimo recinto, è l’animazione gaja delle imprese che prosperano