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§ 2.


I fatti che seguirono a questa tenue, ingenua vita d’idillio, circa quattr’anni dopo, io li conosco sommariamente.

Facevo a Giorgio Mirelli da ripetitore, ma ero anch’io studente, un povero studente invecchiato nell’attesa di proseguir gli studii, e a cui i sacrifizi durati dai parenti per mantenerlo alle scuole avevano spontaneamente persuaso il massimo zelo, la massima diligenza, una timida umiltà accorata, una soggezione che tuttavia non si stancava, benchè quell’attesa si prolungasse ormai da molti e molti anni.

Ma forse non fu tempo perduto. Studiai da me e meditai, in quell’attesa, molto più e con profitto di gran lunga maggiore, che non avessi fatto negli anni di scuola; e da me imparai il latino e il greco, per tentare il passaggio dagli studii tecnici, a cui ero stato avviato, ai classici, con la speranza che mi fosse più facile entrare per questa via all’Università.

Certo, questo genere di studii si confaceva assai più alla mia intelligenza. M’affondai in essi con passione così intensa e viva, che, a ventisei anni, quando per una insperata, modestissima eredità di uno zio prete (morto nelle Puglie e da un pezzo quasi dimenticato dalla mia famiglia) potei finalmente entrare all’Università, rimasi a lungo perplesso, se non mi convenisse lasciar lì nel cassetto, ove da tant’anni dormiva, il diploma di licenza dall’istituto tecnico, e di procurarmi quella dal liceo, per iscrivermi nella facoltà di filosofia e lettere.