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nematografica, e venivano per un film a cogliere dal vero una scena d’asilo notturno.

La Casa cinematografica, che mandava quegli attori, era la Kosmograph, nella quale io da otto mesi ho il posto d’operatore; e il direttore di scena, che li guidava, era Nicola Polacco, o, come tutti lo chiamano, Cocò Polacco, mio amico d’infanzia e compagno di studii a Napoli nella prima giovinezza. Debbo a lui il posto e alla fortunata congiuntura d’essermi trovato quella notte con Simone Pau in quell’asilo notturno.

Ma nè a me, ripeto, venne in mente, quella mattina, che mi sarei ridotto a collocar sul treppiedi una macchina di presa, come vedevo fare a quei due signori, nè a Cocò Polacco di propormi un tale ufficio. Egli, da quel buon figliuolo che è, non stentò molto a riconoscermi, quantunque io — riconosciutolo subito — facessi di tutto per non essere scorto da lui in quel luogo miserabile, vedendolo raggiante d’eleganza parigina e con un’aria e un’impostatura di condottiero invincibile, tra quegli attori, quelle attrici e tutte quelle reclute della miseria, che non capivano più nei loro bianchi càmici dalla gioja d’un guadagno insperato. Si mostrò sorpreso di trovarmi là, ma soltanto per l’ora mattutina, e mi domandò come avessi saputo ch’egli con la sua compagnia dovesse venire quella mattina nell’asilo per un interno dal vero. Lo lasciai nell’inganno, che mi trovassi lì per caso, come un curioso; gli presentai Simone Pau (l’uomo dal violino, nella confusione, era sgattajolato via); e rimasi ad assistere disgustato alla sconcia contaminazione di quella triste realtà, di cui avevo nella notte