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Si presenta in una grande officina tipografica, nella quale è proto uno che, da ragazzotto, lavorava nella sua tipografia a Perugia. — «Non c’è posto; mi dispiace», gli dice costui. E l’amico mio fa per andarsene, avvilito, quando si sente richiamare. — «Aspetta, — dice. — Se ti adatti, ci sarebbe da fare un servizio... Non sarebbe per te; ma, se tu hai bisogno...» — Il mio amico si stringe nelle spalle, e segue il proto. È introdotto in un reparto speciale, silenzioso; e lì il proto gli mostra una macchina nuova: un pachiderma piatto, nero, basso; una bestiaccia mostruosa, che mangia piombo e caca libri. È una monotype perfezionata, senza complicazioni d’assi, di ruote, di pulegge, senza il ballo strepitoso della matrice. Ti dico una vera bestia, un pachiderma, che si rùguma quieto quieto il suo lungo nastro di carta traforata. — «Fa tutto da sè» — dice il proto al mio amico. — «Tu non hai che a darle da mangiare di tanto in tanto i suoi pani di piombo, e starla a guardare.» — Il mio amico si sente cascare il fiato e le braccia. Ridursi a un tale ufficio, un uomo, un artista! Peggio d’un mozzo di stalla... Stare a guardia di quella bestiaccia nera, che fa tutto da sè, e che non vuol da lui altro servizio, che d’aver messo in bocca, di tanto in tanto, il suo cibo, quei pani di piombo! Ma questo è niente, Serafino! Avvilito, mortificato, oppresso di vergogna e avvelenato di bile, il mio amico dura una settimana in quella servitù indegna e, porgendo alla bestia quei pani di piombo, sogna la sua liberazione, il suo violino, la sua arte; giura e promette di non ritornare più a sonare nelle osterie, dov’è forte, veramente forte per lui la tentazione di bere,