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simativamente della durata della scena. Quando ritornai su lo spiazzo ingombro, in mezzo del gabbione enorme iscenato da bosco, l’altra gabbia, con la tigre dentro, era già stata trasportata e accostata per modo che le due gabbie s’inserivano l’una nell’altra. Non c’era che da tirar sù lo sportello della gabbia più piccola.

Moltissimi attori delle quattro compagnie s’erano disposti di qua e di là, da presso, per poter vedere dentro la gabbia di fra i tronchi e le fronde che nascondevano le sbarre. Sperai per un momento che la Nestoroff, ottenuto l’intento che s’era proposto, avesse avuto almeno la prudenza di non venire. Ma eccola là, purtroppo.

Si teneva fuori della ressa, discosta, in disparte, con Carlo Ferro, vestita di verde gajo, e sorrideva chinando frequentemente il capo alle parole che il Ferro le diceva, benchè dall’atteggiamento fosco con cui il Ferro le stava accanto apparisse chiaro che a quelle parole ella non avrebbe dovuto rispondere con quel sorriso. Ma era per gli altri, quel sorriso, per tutti coloro che stavano a guardarla, e fu anche per me, più vivo, quando la fissai; e mi disse ancora una volta che non temeva di nulla, perchè quale fosse per lei il maggior male io lo sapevo: ella lo aveva accanto — eccolo là — il Ferro; era la sua condanna, e fino all’ultimo con quel sorriso voleva assaporarlo nelle parole villane, ch’egli forse in quel punto le diceva.

Distogliendo gli occhi da lei, cercai quelli del Nuti. Erano torbidi. Evidentemente anche lui aveva scorto la Nestoroff là in distanza; ma volle finger di no. Tutto il viso gli s’era come stirato. Si sfor-