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più: quelle sue gambe non le avrebbe più mosse per camminare; non lo avrebbe più veduto quel viale per cui andavamo; e non se le sarebbe più calzate al piede da sè quelle belle scarpette verniciate e quei calzini di seta, e nè più si sarebbe, anche in mezzo alla disperazione, compiaciuto ogni mattina, davanti allo specchio dell’armadio, dell’eleganza del suo abito inappuntabile su la bella persona svelta, ch’io potevo toccare, ecco, ancora viva, sensibile, accanto a me.

— Fratello... —

No: non gli dissi questa parola. Si sentono certe parole, in un momento fuggevole: non si dicono. Gesù potè dirle, che non vestiva come me e non faceva come me l’operatore. In una umanità che prende diletto d’uno spettacolo cinematografico e ammette in sè un mestiere come il mio, certe parole, certi moti dell’animo diventano ridicoli.

— Se dicessi fratello a questo signor Nuti, — pensai, — egli se n’offenderebbe; perchè... sì, avrò potuto fargli un po’ di filosofia su le immagini che invecchiano, ma che sono io per lui? Un operatore: una mano che gira una manovella.

Egli è un «signore», con la follia forse già dentro la scatoletta del cranio, con la disperazione in cuore, ma un ricco «signore titolato» che si ricorda bene d’avermi conosciuto studentello povero, umile ripetitore di Giorgio Mirelli nella villetta di Sorrento. Vuol tenere la distanza tra me e lui, e mi obbliga a tenerla anch’io, ora, tra lui e me: quella che il tempo e la professione mia hanno stabilito. Tra lui e me, la macchinetta.