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Cavalena mi guarda con tanto d’occhi: forse gli sembro impazzito.
— Eh, — poi dice. — Poterlo fare!
— Facilissimo, signor Fabrizio! Che ci vuole? Appena un dramma le si delinea davanti, appena le cose accennano di prendere un po’ di consistenza e stanno per balzarle davanti solide, concrete, minacciose, cavi fuori da lei il pazzo, il poeta crucciato, armato di una pompettina aspirante; si metta a pompare dalla prosa di quella realtà meschina, volgare, un po’ d’amara poesia, ed ecco fatto!
— Ma il cuore? — mi domanda Cavalena.
— Che cuore?
— Perdio, il cuore! Non bisognerebbe averne!
— Ma che cuore, signor Fabrizio! Niente. Sciocchezze. Che vuole che importi al mio cuore se Tizio piange o se Cajo si sposa, se Sempronio ammazza Filano, e via dicendo? Io evado, sfuggo al dramma, mi dilato, ecco, mi dilato! —
Dilata invece sempre più gli occhi il povero Cavalena. Io sorgo in piedi e gli dico per concludere:
— Insomma, alla sua costernazione e a quella della sua figliuola, signor Fabrizio, io rispondo così: che non voglio più saperne di nulla; mi sono seccato di tutto, e vorrei mandare a gambe in aria ogni cosa. Signor Fabrizio, lo dica alla sua figliuola: io faccio l’operatore, ecco! —
E me ne vado alla Kosmograph.