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pericolo che parve a tutti davvero imminente e terribile. Lo vidi dapprima balenare nell’aspetto del Polacco, che ci si era fatto vicino col Bertini e Fantappiè. Parlavano tra loro, certo di quei due che seguitavano a passeggiare sotto gli alberi, e tutti e tre ridevano per qualche frizzo scappato di bocca a Fantappiè, quando d’improvviso ci s’arrestarono davanti coi visi sbiancati, gli occhi sbarrati, tutti e tre. Ma sopra tutto nell’aspetto del Polacco vidi il terrore. Mi voltai a guardare indietro: — Carlo Ferro!

Sopravveniva alle nostre spalle, ancora col berretto da viaggio in capo, com’era sceso or ora dal treno. E quei due, intanto, seguitavano a passeggiare di là, insieme, senz’alcun sospetto, sotto gli alberi. Li vide? Io non so. Fantappiè ebbe la presenza di spirito di gridar forte:

— Oh, Carlo Ferro! —

La Nestoroff si voltò, piantò lì il compagno, e allora si vide — gratis — lo spettacolo commovente d’una domatrice che tra il terrore degli spettatori s’avanza incontro a una belva infuriata. Placida s’avanzò, senza fretta, ancora con l’ombrellino aperto su la spalla. E un sorriso aveva su le labbra, che diceva a noi, pur senza degnarci d’uno sguardo: «Ma che paura, imbecilli! se ci sono qua io!» E uno sguardo negli occhi, che non potrò mai dimenticare, proprio di chi sa che tutti debbano vedere che nessun timore può albergare in sè chi guardi e si faccia avanti così. L’effetto di quello sguardo su la faccia feroce, sul corpo rabbuffato, sui passi concitati di Carlo Ferro fu mirabile. Non vedemmo la faccia, vedemmo quel corpo quasi af-