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inganno innocente, ma che egli medesimo ormai vede che non può parer più tale agli occhi della moglie; esasperato, con le spalle al muro, contro l’evidenza stessa, s’ostina tuttavia a negare, ed ecco che, tante volte, per nulla, avvengono liti, scenate, e Cavalena scappa di casa e sta fuori quindici o venti giorni, finchè non gli ritorna la coscienza d’esser medico e il pensiero della figliuola abbandonata, «povera cara animuccia bella», com’egli la chiama.

È per me un gran piacere, quand’egli si mette a parlarmi di lei; ma appunto per questo non faccio mai nulla per provocarne il discorso: mi parrebbe d’approfittare vilmente della debolezza del padre, per penetrare, attraverso le confidenze di lui, nell’intimità di quella «povera cara animuccia bella». No, no! Tante volte sono anche sul punto d’impedirgli di seguitare.

Pare mill’anni a Cavalena che la sua Sesè sposi, abbia la sua vita fuori dell’inferno di questa casa! La mamma, invece, non fa altro che gridarle tutti i giorni:

— Non sposare, bada! Non sposare, sciocca! Non commettere questa pazzia!

— E Sesè? Sesè? — mi vien voglia di domandargli; ma, al solito, mi sto zitto.

La povera Sesè, forse, non sa neppur lei che cosa vorrebbe. Forse, certi giorni, insieme col padre, vorrebbe che fosse domani; cert’altri giorni proverà il più acerbo dispetto nel sentirne fare qualche accenno velato ai genitori. Perchè certo questi, con le loro indegne scenate, debbono averle strappate tutte le illusioni, tutte, tutte, a una a una,