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risce nella vacuità degli spazii, e non può non sembrarci misera e vana ogni ragione di tormento. Ma bisognerebbe avere in sè, nel momento della passione, la possibilità di pensare alle stelle. Può averla uno come me, che da un pezzo guarda tutto e anche se stesso come da lontano. Se entrassi di là a dire al signor Nuti che nel cielo ci sono le stelle, mi griderebbe forse di salutargliele cacciandomi via, a modo di un cane.

Ma posso io ora, come vorrebbe Polacco, costituirmi suo guardiano? M’immagino come tra poco mi guarderà Carlo Ferro, vedendomi alla Kosmograph con lui accanto. E Dio sa, che non ho alcuna ragione d’esser più amico dell’uno che dell’altro.

Io vorrei seguitare a fare, con la consueta impassibilità, l’operatore. Non m’affaccerò alla finestra. Ahimè, da che è venuto alla Kosmograph quel maledetto senator Zeme, vedo anche nel cielo una meraviglia da cinematografo.


§ 2.


— È dunque un affar serio? — è venuto a chiedermi in camera Cavalena, misteriosamente, questa mattina.

Il pover’uomo teneva in mano tre fazzoletti. A un certo punto, dopo molte commiserazioni per quel «caro barone» (cioè il Nuti) e molte considerazioni su le innumerevoli infelicità umane, come in prova di queste infelicità, mi ha sciorinato davanti quei tre fazzoletti, prima uno, poi l’altro e poi l’altro, esclamando: