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Ma è lì, in quegli occhi, e non in quel che dice, il suo cuore. E perciò di quegli occhi specialmente ho avuto pietà. Non dica e pianga; pianga e senta il suo pianto: è il meglio che possa fare.

Mi giunge, a traverso la parete, il rumore de’ suoi passi. Gli ho consigliato d’andare a letto, di provarsi a dormire. Dice che non può; che ha perduto il sonno, da tempo. Chi gliel’ha fatto perdere? Non il rimorso certamente, a stare a quel che dice.

È tra i tanti fenomeni dell’anima umana uno de’ più comuni e insieme de’ più strani da studiare, questo della lotta accanita, rabbiosa, che ogni uomo, per quanto distrutto dalle sue colpe, vinto e disfatto nel suo cordoglio, s’ostina a durare contro la propria coscienza, per non riconoscere quelle colpe e non farsene un rimorso. Che le riconoscano gli altri e lo puniscano per esse, lo imprigionino, gl’infliggano i più crudeli supplizii e lo uccidano, non gl’importa; purchè non le riconosca lui, contro la propria coscienza che pur gliele grida!

Chi è lui? Ah, se ognuno di noi potesse per un momento staccar da sè quella metafora di se stesso, che inevitabilmente dalle nostre finzioni innumerevoli, coscienti e incoscienti, dalle interpretazioni fittizie dei nostri atti e dei nostri sentimenti siamo indotti a formarci; si accorgerebbe subito che questo lui è un altro, un altro che non ha nulla o ben poco da vedere con lui; e che il vero lui è quello che grida, dentro, la colpa: l’intimo essere, condannato spesso per tutta intera la vita a restarci ignoto! Vogliamo a ogni costo salvare, tener ritta in piedi quella metafora di noi