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— No, ecco, veda, caro signor... com’ha detto, scusi?

— Gubbio.

— Gubbio, grazie. Io, Cavalena; a servirla.

— Cavalena, grazie, lo so.

— Fabrizio Cavalena: a Roma sono piuttosto conosciuto...

— Sfido, un buffone! —

Cavalena si voltò pallidissimo, a bocca aperta, a guardare la moglie.

— Buffone, buffone, buffone, — raffibbiò questa, tre volte.

— Nene, perdio, rispetta... — cominciò minacciosamente Cavalena; ma tutt’a un tratto s’interruppe: strizzò gli occhi, contrasse il volto, strinse le pugna, come assalito da un fitto spasimo di ventre, improvviso... — niente! era lo sforzo tremendo, che ogni volta suol fare su se stesso per contenersi, per spremere dalla sua bestialità adirata la coscienza d’esser medico e di dovere perciò trattare e compatire la moglie come una povera inferma.

— Permette? —

E m’introdusse un braccio sotto il braccio, per allontanarsi con me di qualche passo.

— Tipica, sa? Poveretta... Ah, ci vuole un vero eroismo, creda, un grande eroismo da parte mia a sopportarla. Non lo avrei, forse, se non ci fosse quella mia povera piccina. Basta! Le dicevo... questo Polacco, questo Polacco, benedetto Iddio... questo Polacco! Ma scusi, che sono parti da fare a un amico, conoscendo la mia sciagura? Mi conduce la figliuola a posare... con una donnaccia... con un