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faccia con gaja ferocia, e nessuno in apparenza se n’offende; ma la stizza, dentro, s’accende, la bile fermenta; lo sforzo per tenere ancora la conversazione su quel tono burlesco, che suscita le risa, perchè nelle risa comuni l’ingiuria si stemperi e perda il fiele, diviene a mano a mano più penoso e difficile; poi, del lungo sforzo durato resta in ciascuno una stanchezza di noja e di nausea; ciascuno sente con aspro rammarico d’aver fatto violenza ai proprii pensieri, ai proprii sentimenti; più che rimorso, fastidio della sincerità offesa; disagio interno, quasi che l’animo gonfiato e illividito non aderisca più al proprio intimo essere; e tutti sbuffano per cacciarsi via d’attorno l’afa del proprio disgusto; ma, il giorno appresso, tutti ricascano in quell’afa e daccapo ci si scaldano, cicale tristi, condannate a segar frenetiche la loro noja.

Guaj a chi càpita nuovo, o dopo qualche tempo, in mezzo a loro! Ma Cavalena forse non s’offende, non si lagna dello strazio che i suoi buoni amici fanno di lui, crucciato com’è in cuore dal riconoscimento ch’egli ha perduto nella sua reclusione «il contatto con la vita». Dall’ultima sua evasione dall’ergastolo son passati, poniamo, diciotto mesi? bene: come se fossero passati diciotto secoli! Tutti, a risentir da lui certe parole di gergo, vive vive allora, ch’egli ha custodito come gemme preziose nello scrigno della memoria, storcono la bocca e lo guardano, come si guarda in trattoria una pietanza riscaldata, che sappia di strutto ràncido, lontano un miglio! Oh povero Cavalena, ma sentitelo! sentitelo! s’è fermato nell’ammirazione