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— Suona! — gli gridò questi. — Non temere! Suona! Ti comprenderà! —

E allora quello, come liberandosi con un tremendo sforzo da un incubo, levò finalmente la testa, scrollandola, buttò a terra il cappellaccio sformato, si passò una mano sui lunghi capelli arruffati, trasse il violino dalla vecchia fodera di panno verde, e buttò via anche questa, sul cappello.

Qualche lazzo partì dagli operai affollati dietro a noi, seguìto da risa e da commenti, mentr’egli accordava il violino; ma un gran silenzio si fece subito appena egli prese a sonare, dapprima un po’ incerto, esitante, come se si sentisse ferire dal suono del suo strumento non più udito da gran tempo; poi, d’un tratto, vincendo l’incertezza, e forse i fremiti dolorosi, con alcuni strappi energici. Seguì a questi strappi come un affanno a mano a mano crescente, incalzante, di strane note aspre e sorde, un groviglio fitto, da cui ogni tanto una nota accennava ad allungarsi, come chi tenti di trarre un sospiro tra i singhiozzi. Alla fine questa nota si distese, si sviluppò, s’abbandonò, liberata dall’affanno, in una linea melodica, limpida, dolcissima e intensa, vibrante d’infinito spasimo: e una profonda commozione allora invase noi tutti, che in Simone Pau si rigò di lagrime. Con le braccia levate egli faceva cenno di star zitti, di non manifestare in alcun modo la nostra ammirazione, perchè nel silenzio quel bislacco straccione meraviglioso potesse ascoltare la sua anima.

Non durò a lungo. Abbassò le mani, come esausto, col violino e l’archetto, e si rivolse a noi col volto trasfigurato, bagnato di pianto, dicendo: