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XI. — Le tre carissime. 137


Quasi con le lagrime a gli occhi il povero Tranzi allora le rivelò le segrete miserie di cui era piena la sua vita; le disse tra l’altro che, da circa un anno, aveva dovuto finanche privarsi del pianoforte che teneva a nolo. Senz’altro, allora, Giorgina gli propose di lavorare lì, in casa loro, mettendo a disposizione di lui il pianoforte, di cui avrebbe potuto servirsi con la massima libertà: lo avrebbero lasciato solo nel salotto; la famiglia si sarebbe ritirata al lato opposto della casa. Tanto disse, tanto fece, che lo costrinse ad accettare. So che arrivò finanche a chiuderlo a chiave nel salotto; e la chiave la teneva lei.

Chi sa che la scoperta di quel capello bianco, insieme con tante altre piccole cose tristi, su cui gli occhi fino allora si erano chiusi con pena, non abbia determinato davvero in lei, e conseguentemente nelle sorelle, la ribellione! La quale fu tanto più violenta quanto più lunga e paziente era stata la speranza, che a un tratto dovette loro apparir vana e quasi derisoria.

Ho sentito più d’uno incolpare la maggiore delle Marùccoli del suicidio di Angiolo Tranzi. È un’infamia. Che colpa ebbe la Marùccoli, se il Tranzi volle farsi un rimorso della gioja che ella, improvvisamente, nella sua ribellione contro il tempo perduto nella vana attesa, e contro la sorte che la condannava ad appassire senz’amore, gli volle concedere, deliberatamente, quasi in premio al lungo desiderio di lui rassegnato al silenzio?

No, no: il Tranzi, l’ho conosciuto bene, era troppo tarlato dentro, e non potè resistere alla irruzione su lui di questa gioja ardentissima, ribelle a ogni pregiudizio. Il tarlo di troppi disinganni lo aveva roso dentro, tutto; all’urto della gioja, si infranse.