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XI. — Le tre carissime. 133


La madre aveva una modestissima pensione lasciatale dal marito (quel bravo signor Carlo Marùccoli, che tutti poi riconobbero per un gran galantuomo: ah lui, sì! — perchè era morto, lui, quando avvenne lo scandalo); e avevano anche una piccola vigna — come la chiamano a Roma — con un grazioso villino oltre Ponte Molle; ma nè questa nè quella potevano bastare a sopperire alle spese.

La vita che conducevano si reggeva dunque su miracoli d’economie segrete e sacrifizii dissimulati con ogni arte. Erano sempre liete le tre care figliuole, nè quel loro cocente e onestissimo desiderio d’un marito le rendeva mai fastidiose, specialmente con noi (dico con me e col povero Tranzi), di cui del resto conoscevano la buona volontà che avremmo avuto di farle felici, se.... Il se, ve lo immaginerete facilmente: io, un povero pittore; il Tranzi, maestro di musica. Arti belle, non dico di no; ma buone da mantenerci la moglie, non credo.

Nessuno mai, prima, le aveva giudicate civette. Ora, si sa, ora tutti i vizii, tutti i difetti erano in loro. Non me ne faccio nient’affatto il paladino: domandatene pure a tanti altri che frequentavano con me la casa. Chi può dire d’aver mai ricevuto un anche minimo incitamento da loro? Si scherzava, si rideva, si sfrottolava del più e del meno, la sera, ma nei modi più leciti e corretti, come si deve davanti a tre fanciulle che, occorrendo, col tatto e col garbo più squisito, avrebbero saputo mettere a posto chiunque dalla festosità della conversazione si fosse sentito spinto a eccedere un po’ nei gesti o nelle parole.

Ma che non fossero civette, una prova posso darvela io, a mie spese e a spese del povero Tranzi. Perchè non dirlo? Io ero innamorato della seconda; il Tranzi,