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III. — Il bottone della palandrana. 47


— Sono cose, — seguitò, — che esorbitano dalla mia amministrazione.

— Esorbitano?

— Già. Noi qua dobbiamo guardare e guardiamo Zezza ministro. Come tale, lo abbiamo trovato sempre ineccepibile. Zezza uomo non ci riguarda, caro signore. Dirò di più: è per noi anzi un vantaggio, che egli sia così ladro, o piuttosto così desideroso di arricchirsi. Mi spiego. Agli altri ministri che si tengono paghi, più o meno, al loro stipendio soltanto, non preme affatto che i poderi rendano qualche cosa di più di quello che potrebbero rendere. Preme invece allo Zezza, perchè, oltre che a noi, essi debbono rendere anche a lui. E il risultato è questo: che nessuno dei settori ci rende tanto quanto quello di cui Zezza è ministro.

— Ma dunque.... — fece ancora una volta, come in un singhiozzo, don Filiberto.

— Oh, dunque, — ripigliò alzandosi per licenziarlo il Marchese, — io la ringrazio tanto, a ogni modo, caro signore, dell’incomodo che Ella ha voluto prendersi; quantunque.... oh Dio, sì.... forse avrebbe potuto immaginarsi che a un’amministrazione come la mia questi fatti non potevano restare ignoti. Questi e altri, com’Ella ha potuto vedere. Ma a ogni modo, io la ringrazio e me le professo gratissimo. Si stia bene, caro signore. —

Don Filiberto Fiorinnanzi uscì stordito, stonato, insensato addirittura, dalla sede dell’amministrazione.

— E dunque.... —

La conclusione l’aveva in mano.

Un bottone della palandrana. Sentendo parlare a