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III. — Il bottone della palandrana. 45

vene e imbrogliarsi in bocca le parole del breve esordio con tanto studio preparato.

Quell’occhio diffidava; quell’occhio non credeva al disinteresse; quell’occhio severissimamente lo ammoniva a non dir cosa che non avesse prova e fondamento nei fatti, e con inflessibile acume scrutava attraverso ogni parola che gli usciva con tremore dalle labbra.

Se non che, a un certo punto, il Marchese si tolse la mano dalla fronte, e scoprì l’altro occhio: un languido, melenso occhio svogliato, un occhio che, per così dire, sbadigliava e che si rivolgeva al visitatore, come a chieder pietà.

Don Filiberto Fiorinnanzi si sentì a un tratto crollare in fondo allo stomaco tutte le viscere sospese.

Quell’occhio, quell’occhio che gli aveva incusso tanto terrore, era.... era dunque finto? di vetro? Ah Dio, sì, di vetro. E dunque il Marchese, tenendo coperto quello vero, non solo non lo aveva finora così terribilmente fissato e scrutato e minacciato, ma neppur s’era curato di veder chi fosse entrato a parlargli; e forse non aveva neanche ascoltato nulla di quanto egli con tanta trepidazione gli aveva detto.

— Vengo.... signor Marchese.... vengo ai fatti.... — balbettò tutto smorto e smarrito.

— Ecco, sì, mi faccia questa grazia, — miagolò il Marchese.

E posando il pugno, ora, sulla scrivania, vi appoggiò la fronte. Non si rimosse più da quella positura. Don Filiberto Fiorinnanzi poteva supporre che dormisse. Alla fine, alzò la fronte dal pugno; disse:

— Permette? —

E stese la mano a ricevere il foglio della denunzia.