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III. — Il bottone della palandrana. | 41 |
quietarsi, per salvare quella sua sistemazione dell’universo, si metteva a escogitar scuse e attenuanti a quell’incuria, a quella rilassatezza. E ci riusciva alla fine; ma con questo: che la sistemazione, a mano a mano, accogliendo quelle scuse e quelle attenuanti, perdeva di rigidità, s’ammolliva, pencolava di qua e di là; e don Filiberto si vedeva da un altro canto costretto a darsi pena per tenerla su, a furia di rincalzi, ora da una parte, ora dall’altra.
Santo Dio, era giunto finanche ad ammettere che si potesse rubare! Sì, ma con una certa discrezione, almeno; per modo che il ladro salisse a poco a poco nella stima e nel rispetto della gente onesta e desse tempo a considerare che dopo tutto forse non è tanto ladro il ladro, quanto imbecille chi si lascia rubare.
Il caso di Meo Zezza era veramente grave. In pochissimo tempo costui era saltato su, coi denari rubati, a pretendere, a imporre una considerazione che gli doveva assolutamente esser negata; a trattare confidenzialmente, a tu per tu, con chi per nascita, per età, per educazione doveva essergli e restargli superiore. E poi qua non si poteva in nessun modo ammettere che fosse imbecille il padrone a cui Meo Zezza rubava. Si sapeva anzi a Forni, che il marchese Di Giorgi-Decarpi amministrava i suoi vastissimi beni così esemplarmente, che ogni anno gli alunni delle scuole commerciali erano condotti dai loro professori a studiare il congegno di quell’amministrazione come un modello del genere.
Circa trent’anni fa, il padre del Marchese aveva rischiato tutti i suoi capitali nella grande impresa del prosciugamento delle paludi dell’Irbio, ed era morto prima di veder l’esito felice dell’impresa. Il figliuolo, giovanissimo, ora si godeva in città la rendita d’una