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Non gridarono; non fecero chiasso. A bassa voce, anzi senza voce, l’uno di fronte all’altro, prima l’uno e poi l’altro, si sputarono in faccia l’accusa:
— Spia!
— Ladro! —
E seguitarono così — spia! ladro! — come se non volessero più finire, allungando ogni volta il collo, come fanno i galli a pinzare, e pigiando a mano a mano sempre più, l’uno su l’i di spia, l’altro su l’a di ladro.
Gli alberetti, affacciati di qua e di là dai muri di cinta che incassavano quella viuzza stretta e sassosa tra i campi, pareva stessero a godersi la scena.
Perchè quelli di qua sapevano da qual parte del muro Meo Zezza s’era poc’anzi collato; quelli di là, dove don Filiberto Fiorinnanzi si teneva prima nascosto.
E di qua e di là, passeri, cince e beccafichi, quasi n’avessero avuto il segnale dagli alberetti in vedetta, accompagnavano con un coro di sfrenata ilarità quell’aspra rissa sottovoce, a petto a petto, ferma ancora su quelle due parole, che invece di levarsi su, acute, si stiracchiavano pigiate sempre più dallo sprezzo:
— Spiiia!
— Laaadro!