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di vetro. Ne avevo tre di quei tubetti, nella valigia. Istitutrice. Mi servivano, a un bisogno, per disinfettare. Incipriandomi, mi guardai — proprio come lei ha supposto nello specchietto a bilico dell’albergo sul canterano. Non prima soltanto, ma anche dopo quella prima prova, uscendo per uccidermi. Sí! Ma sul sedile di quel giardino, fino a un momento prima, io non lo sapevo, non volevo saperlo, che l’avrei fatto. Avrei potuto, invece, come niente, ritentare la prova; se il caso lo avesse voluto; se fosse passato qualcuno a cui fossi piaciuta o che mi fosse piaciuto. Io non lo so, se mi sarei piú uccisa. — La cipria me l’ero data, e anche un po’ di rosso alle labbra; e m’ero messo apposta quest’abitino celeste. —

Balza in piedi.

Ma se ora sono qua, del resto, scusate, che vuol dire? Vuol dire che l’ho vinto quello schifo, dopo averlo paragonato con la morte. Non sarei qua con uno che m’ha scritto, senza conoscermi, offrendomi ricetto.

Franco (con improvvisa risoluzione). Senti! Io lo so, lo so perché parli cosí, perché provi codesta voluttà di dilaniarti!

Ersilia (subito violenta). Io? Voialtri!

Franco. Ah! Vedi? Lo sai dire! La senti come una crudeltà degli altri? E perché vuoi che uno almeno di questi altri, a cui s’è ridestata la coscienza, non ripari a codesta crudeltà?

Ersilia. Come? Infliggendomela ancora?

Franco. Ma no...

Ersilia (martellando le frasi). Io ti dico che finsi, ti dico che non è vero, ti dico che ho mentito, e te lo ripeto! Non sono stati gli altri! Non sei stato tu! — La vita, è stata! Questa vita che mi dura — Dio, che disperazione! — senza che mi sia potuta mai, mai consistere in qualche modo! — Ma che altro debbo dirti per allontanarti?

Si sente picchiare forte alla comune.

Ludovico. Chi è? Avanti!

L’uscio s’apre: entra Emma.

Ludovico. Che cosa volete?

Emma. C’è il signor console Grotti.

Ersilia (con un grido). Ah, eccolo! Me l’aspettavo!