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886 | maschere nude |
— Il nome, signorina mia — nome come nome — io veramente non l’ho stampato.
Ludovico. Ma avete fatto benissimo a smascherare —
Cantavalle. — no; io ho detto: «Il nostro console a Smirne ». Che volete che sappia il pubblico che legge, chi sia questo nostro console a Smirne? Non lo sapevo neanche io; come non lo so neanche adesso. Tutto mi potevo figurare, tranne che mi dovesse jeri piombare come un fulmine in redazione!
Ersilia (di nuovo tra sé disperandosi). Dio mio... Dio mio...
Ludovico. Ma è dunque venuto a Roma per questo?
Cantavalle. Non per questo, no! è venuto per la disgrazia della figliuola (che noi abbiamo raccontato) — e perché la moglie, dice, è come impazzita. Non si può piú vedere, là, dove avvenne la disgrazia, dice — e si capisce!
Ersilia. Sí, lo diceva, lo diceva...
Cantavalle. Per chiedere un trasferimento, insomma, mi spiego? Ha letto il giornale:
si bacia la punta delle dita
Ludovico. Ma perché?
Cantavalle. Come, perché? Ha una posizione ufficiale delicatissima da difendere, voi capite: console! Minaccia una querela al giornale, per diffamazione.
Ludovico. Una querela? Ma che diceva il giornale, infine, di lui?
Cantavalle. Un sacco di bugie, sostiene, a suo danno!
Ludovico. Bugie?
Ersilia. Io non so ancora che cosa lei abbia scritto su lui, sulla moglie, su quella disgrazia.
Cantavalle. Vi posso giurare, signorina mia, che ho scritto fedelmente quello che m’avete detto voi, né piú né meno. Col calore, sí, della commozione che ho provato, ma senza alterare d’un punto né i dati né i fatti. Potete vederlo voi stessa, del resto, leggendo il giornale.
Ludovico (che s’è recato a frugare tra le carte della scrivania). Devo averlo... devo averlo...
Cantavalle. Non ve ne curate, Maestro, ve lo manderò io.
A Ersilia: