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Al levarsi della tela, la scena è vuota. Le due finestre aperte lasciano entrare, per un pezzo, i rumori della via. S’apre la comune, a sinistra, ed entra col cappellino in capo Ersilia Drei, come una che non sappia dove. Indossa un abitino celeste, decente, sciupato un po’ dall’uso, da maestrina o da istitutrice. Ha poco piú di vent’anni, ed è bella, ma — cavata or ora di mano alla morte — è molto pallida e ha gli occhi come smarriti nel livido delle occhiaje. Guarda in giro la stanza, restando in piedi, in attesa di qualcuno che deve ancora entrare; accenna di sorridere mestamente a quel che vede; ma, contrariata dai rumori della via, aggrotta penosamente le ciglia. Entra alla fine, nell’atto di rimettersi nella tasca in petto il portafogli, Ludovico Nota: bell’uomo, ancora prestante benché abbia di già passato la cinquantina. Occhi acuti, lucenti, e sulle labbra ancora fresche un sorriso quasi giovanile. Freddo, riflessivo, privo affatto di quelle doti naturali che conciliano facilmente la simpatia e la confidenza, non riuscendo a simulare alcun calore d’affetto, si studia di parere almeno affabile; ma questa affabilità, che vorrebbe essere disinvolta e non è, anziché rassicurare impaccia e qualche volta sconcerta.

Ludovico. Eccomi qua! Comoda, comoda... Dio mio, queste finestre

si precipita a chiuderle

sono una vera dannazione! Ma se per poco non tengo aperto, si rifà qua dentro un tanfo cosí acre di rinchiuso... Casacce vecchie. Si levi, si levi il cappellino!

Ersilia eseguisce.

Entra dall’uscio in fondo, con sotto il braccio un fagotto di biancheria da letto da mandare al bucato e nell’altra mano una