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Fulvia. Madre, madre — come prima! — quella di prima! quella che lei non conobbe!

Allude alla figlia.

Ah, zia Ernestina — credi, credi — è una vera rinascita per me! Capisci che mi risento madre come allora — in attesa — prima ch’ella mi nascesse? Cosí, cosí! E mi sento io, qua, io sola — per quello che sono ora, viva come prima — la vera santa — io, per tutto il martirio che ho sofferto, prima e dopo, — questi quattro mesi qua, con lei... ah, che cosa, se sapessi! — Dio Dio, che cosa!... che cosa!

Zia Ernestina. Me l’immagino, me l’immagino... Ma te l’ha dato senza saperlo, quella poverina...

Fulvia. Senza saperlo, ma con che ferocia! Fredda, sai? oh, mansa! Il vero livore!

All’improvviso, si turba profondamente; si alza, stringendosi forte una mano sugli occhi.

Oh Dio, basta che non mi fissi!

Zia Ernestina (sorpresa da questo moto improvviso). Che cosa?

Fulvia. Niente. Una cosa che ho detto poco fa a suo padre.. Bisogna che me la scacci dalla mente.

Forzandosi a rientrare nella coscienza abituale:

Credi che ho fatto di tutto, zia, non per farmi amare... non so, sentisse — ecco — — sentisse per me, ma perché lei... non so, sentisse che io... non te lo so dire! Anche i suoi dispetti, certe volte, mi son parsi carini... mi han fatto sorridere entro di me. Ma se n’è accorta. E a vederla cangiare in viso, allora! Un martirio, ti dico. L’ho potuto sopportare, perché sono cosí di nuovo, credi, com’ero per lei, a diciott’anni.

Staccando come per un’idea che le sorge improvvisa:

A proposito! Mi dovresti fare un favore, zia Ernestina. Son sicura che lei si presterà.

Zia Ernestina. Un favore? Io?

Fulvia. Sí. Dovresti indurla, proprio per farmi un dispetto, dicendoglielo, a comparirmi davanti, uno di questi giorni, all’improvviso, con quel mio abito di velo a roselline, ch’ella conserva.