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Sono in iscena, al levarsi della tela, Fulvia, la governante Betta e il Commesso di negozio. Fulvia è in una ricca e gaja vestaglia estiva. Ha ancora i suoi capelli di fuoco, ma composti in una placida pettinatura. Non ha piú il fosco pallore del primo atto: pare rasserenata. La vecchia governante Betta ha l’aria d’una mezza signora: sta con gli altri due presso a un tavolino ed esamina con l’occhialetto e palpa e tasta i molti scampoli di tela, bianchi e anche colorati, celesti, rosei, lilla, e i varii merletti, che il commesso di negozio ha tratti da una grande scatola di tela cerata con cinghie di cuojo, posata su una sedia accanto al tavolino.
Commesso. Già! Se la signora vuol proprio pigliarsi il fastidio...
Fulvia. Ma no! Non sarà mica un fastidio!
Commesso. Capisco — pardon! — per una madre... Ma sarà un po’ lungo, mi permetto di farle osservare, preparare tutt’intero un corredino di nascita...
Fulvia. Oh, mi servirà anche per passare il tempo!
Commesso. Capisco. Dicevo, perché ne abbiamo tanti, già — belli e pronti in bottega — una meraviglia, sa? — tutti assortiti — di tutto punto — delicatissimi...
Fulvia (a Betta che esamina una tela). Che ve ne pare, di questa?
Betta. Ah! — lenta... lenta...
Commesso. Pelle d’uovo, codesta! Sopraffina. — Si fanno di codesta, ora. Oppure di nansouk.
Betta (giocando con le parole). Sarà nansú — io non so; ma è lenta.
Commesso (piccato). No, scusi — ho detto che codesta è pelle d’uovo.
Betta. Pelle d’uovo — ma è lenta.
Commesso. Ma no, per carità! Lieve, morbida — sfido! per le carni tènere d’un neonato! — ma resistentissima. Garantisco.
Fulvia. Sarà, sarà... Ma non è, a ogni modo, quella ch’io