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in quel silenzio, il suono d’un pianoforte: l’unico del paese. Vi corsi incontro come un assetato! E sissignori, sposai quella donna piú vecchia di me, che mi parve bellissima e intelligentissima, solo perché aveva quel pianoforte. — Perché musica, musica io ho studiato, capite? non ho mai studiato legge io. — Sono un musicista, io! — E quella — dacché la sposai — m’ha chiamato sempre pretore. Sí, sí, e anche i figli! — Quattro — cresciuti con lei in campagna — a-nal-fa-be-ti. — Anch’essi, anch’essi — non mi chiamano mica papà! pretore mi chiamano! anzi: — Preto’!, come la madre. — È in casa il Preto’? — No, è alla pretura, il Preto’

Scoppiano a ridere tutti, tranne Fulvia.

Roghi (tra le risa). Oh bella! oh bella!

Mauri. Ridete, sí, ridete! Voglio riderne anch’io, ora! — Me ne sono liberato, vivaddio! — D’amore e d’accordo — sí! Con qualche carezza, anche. — E l’avrei strozzata, v’assicuro!

Don Camillo (vedendo apparire dalla porticina dell’orto, in fondo, Silvio Gelli, che viene avanti tra quelle risa, costernato). Oh, Dio sia lodato, ecco qua finalmente il signor professore!

Alto di statura, Silvio Gelli, di circa cinquant’anni, ossuto, poderoso, porta occhiali a staffa, cerchiati d’oro. Non ha barba né baffi. Quasi calva la sommità del capo; ma lunghe ciocche di capelli biondastri, scoloriti, gli scendono scompostamente su la fronte e su le tempie. Egli se le rialza di tanto in tanto, e si tiene allora, per un tratto, le mani sul capo, come per un gesto di meditazione, che gli è abituale. Ha l’aria tra sturdita e aggrondata d’un uomo che attraversi una grave crisi di coscienza. Ma vuol dissimularla. Per cui, spesso, resta quasi ottusamente inerte, con un sorriso freddo e vano, rassegato sulle labbra: espressione involontaria d’un che di beffardo, che è nella sua natura, e che quasi affiora a sua insaputa da antiche, maligne passioni, non ancora spente in lui, sebbene già da un pezzo domate. A urtarlo un po’ in queste pause di ottusa inerzia, che sono in lui come ambigui arresti di difesa morale, egli s’intorbida: quel sorriso vano gli si scompone in una contratta smorfia di dolore, come se gli bisognasse che il dolore gli diventasse anche fisico, per poterlo sentire. Da queste contrazioni la sua fisonomia riassomma poi ricom-