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prefazione | 63 |
chi non m’intende, capisco che l’appunto viene dal fatto che quel personaggio esprime come proprio un travaglio di spirito che è riconosciuto essere il mio. Il che è ben naturale e non significa assolutamente nulla. A parte la considerazione che quel travaglio di spirito nel personaggio del Padre deriva, ed è sofferto e vissuto, da cause e per ragioni che non hanno nulla da vedere col dramma della mia esperienza personale, considerazione che da sola toglierebbe ogni consistenza alla critica, voglio chiarire che una cosa è il travaglio immanente del mio spirito, travaglio che io posso legittimamente — purché gli torni organico — riflettere in un personaggio; altra cosa è l’attività del mio spirito svolta nella realizzazione di questo lavoro, l’attività cioè che riesce a formare il dramma di quei sei personaggi in cerca d’autore. Se il Padre fosse partecipe di questa attività, se concorresse a formare il dramma dell’essere quei personaggi senz’autore, allora sí, e soltanto allora, sarebbe giustificato il dire che esso sia a volte l’autore stesso, e perciò non sia quello che dovrebbe essere. Ma il Padre, questo suo essere «personaggio in cerca d’autore», lo soffre e non lo crea, lo soffre come una fatalità inesplicabile e come una situazione a cui cerca con tutte le forze di ribellarsi e di rimediare: proprio dunque «personaggio in cerca d’autore» e niente di piú, anche se esprima come suo il travaglio del mio spirito. Se esso fosse partecipe dell’attività dell’autore, si spiegherebbe perfettamente quella fatalità; si vedrebbe cioè accolto, sia pure come personaggio rifiutato, ma pur sempre accolto nella matrice fantastica d’un poeta e non avrebbe piú ragione di patire quella disperazione di non trovare chi affermi e componga la sua vita di personaggio: voglio dire che accetterebbe assai di buon grado la ragion d’essere che gli dà l’autore e senza rimpianti rinunzierebbe alla propria, mandando all’aria quel Capocomico e quegli attori a cui, come a unico scampo, è invece ricorso.
C’è un personaggio, quello della Madre, a cui invece non importa affatto aver vita, considerato l’aver vita come fine a se stesso. Non ha il minimo dubbio, lei, di non esser già viva; né le è mai passato per la mente di domandarsi come e perché, in che modo, lo sia. Non ha, insomma, coscienza d’essere personaggio: in quanto non è mai, neanche ber un momento, distaccata dalla sua «parte». Non sa d’avere una «parte».
Questo le torna perfettamente organico. Infatti la sua parte di Madre non comporta per se stessa, nella sua «naturalità», movimenti spirituali; ed ella non vive come spirito: vive in una continuità