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il piacere dell’onestà | 623 |
chese; e dico: Ma quanto è vile, ma com’è indegno questo che tu ora stai facendo!
Fabio (sconcertato, imbarazzato). Oh Dio... ma no... perché?
Baldovino. Perché sí, scusi. Lei, tutt’al piú, potrebbe domandarmi perché allora lo faccio? Ma perché... molto per colpa mia, molto anche per colpa d’altri, e ora, per necessità di cose, non posso fare altrimenti. Volerci in un modo o in un altro, signor marchese, è presto fatto: tutto sta, poi, se possiamo essere quali ci vogliamo. Non siamo soli! — Siamo noi e la bestia. La bestia che ci porta. — Lei ha un bel bastonarla: non si riduce mai a ragione. — Vada a persuader l’asino a non andare rasente ai precipizii: — si piglia nerbate, cinghiate, strattoni; ma va lí, perché non ne può far di meno. E dopo che lei l’ha bastonata, pestata ben bene, le guardi un po’ gli occhi addogliati: scusi, non ne sente pietà? — Dico pietà; non scusarla! — L’intelligenza che scusi la bestia, s’imbestialisce anch’essa. Ma averne pietà è un’altra cosa! Non le pare?
Fabio. Ah, certo... certo... — Vogliamo dunque venire a noi?
Baldovino. Ci siamo, signor marchese. Le ho detto questo, per farle intendere che, avendo il sentimento di quel che faccio, ho anche una certa dignità che mi preme di salvare. Non c’è altro mezzo di salvarla, che parlando aperto. — Fingere, sarebbe orribile, oltre che laido, volgarissimo. — La verità!
Fabio. Ecco, sí... chiaramente... Vedremo d’intenderci...
Baldovino. E, allora, se permette, domanderò.
Fabio. Come dice?
Baldovino. Le farò qualche domanda, se permette.
Fabio. Ah, sí, domandi pure.
Baldovino. Ecco.
Trae di tasca un taccuino.
Apre il taccuino e lo sfoglia; intanto, comincia a domandare, con l’aria d’un giudice non severo: