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Leone. Eh, caro. Non è rimedio per te. Per salvarsi, bisogna sapersi difendere. Ma è una certa difesa... dirò, disperata, che tu forse non puoi neanche intendere.

Guido. Come sarebbe, disperata? Accanita?

Leone. No, no, disperata, caro, nel senso d’una vera e propria disperazione, ma pur tuttavia senza neanche un’ombra d’amarezza per questo.

Guido. E che difesa, allora, scusa?

Leone. La piú ferma, la piú immobile, appunto perché nessuna speranza piú t’induce a piegarti verso una, sia pur minima, concessione né agli altri né a te stesso.

Guido. Non capisco. E la chiami difesa? Difesa di che cosa, se dev’esser cosí?

Leone (lo guarda un tratto severo e fosco; poi, dominandosi e quasi riassorbendosi in una impenetrabile serenità). Di niente, in te, se in te riesci, come sono riuscito io, a non aver piú nulla. Che vuoi difendere? Difenderti, io dico! Dagli altri, e sopratutto da te stesso; dal male che la vita fa a tutti, inevitabilmente; quello che io mi son fatto per lei

indica di nuovo la vetrata, dietro alla quale suppone che Silia sia nascosta

tant’anni! quello che io faccio a lei, anche cosí del tutto isolato come mi tengo; quello che tu fai a me...

Guido. IO?

Leone. Ma sí, inevitabilmente.

Spiandolo negli occhi:

Credi di non farmi nessun male tu?

Guido (smorendo). Mah... ch’io sappia...

Leone (per rinfrancarlo). Oh, anche senza saperlo, mio caro! Tu mangi carne, a tavola. Chi te la dà? Un pollo, o un vitello. Non ci pensi nemmeno. Ce lo facciamo tutti, il male, a vicenda; e ciascuno a se stesso, poi... Per forza! È la vita. Bisogna vuotarsene.

Guido. Bravo! E che ti resta allora?

Leone. Contentarsi, non piú di vivere per sé, ma di guardar vivere gli altri, e anche noi stessi, da fuori, per quel poco che pur si è costretti a vivere.

Guido. Ah, troppo poco, scusa!