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la vita che ti diedi | 483 |
rità che oltrepassa ogni dolore e si fa qua, qua come una luce che non si può piú spegnere —
si stringerà con ambo le mani le tempie
Donna Fiorina. Tu dovresti riposarti un poco, Anna mia.
Donn'Anna. Non posso. Mi vuole viva. — Ma guardi, don Giorgio, guardi se non è tutto vero cosí come io le dico. Mio figlio, voi credete che mi sia morto ora, è vero? Non mi è morto ora. Io piansi invece, di nascosto, tutte le mie lagrime quando me lo vidi arrivare: — (e per questo ora non ne ho piú!) — quando mi vidi ritornare un altro che non aveva nulla, piú nulla di mio figlio.
Don Giorgio. Ah, ecco — sí, cambiato — certo! Eh, l’ha detto lei stessa, dianzi, di sua sorella. Ma si sa che la vita ci cambia, e...
Donn'Anna. — e ci pare che possiamo confortarci dicendo cosí: «cambiato». E cambiato, non vuol dire un altro, da quello che era? Io non lo potei riconoscere piú come il figlio che m’era partito. — Lo spiavo, se almeno un volger d’occhi, un cenno di sorriso a fior di labbro, che so... un subito schiarirsi della fronte, di quella sua bella fronte di giovinetto con tanti capelli fini — oh, d’oro nel sole! — mi avesse richiamato vivo, almeno per un momento, in questo che m’era ritornato, il mio figlio d’allora. No, no. Altri occhi: freddi. E una fronte sempre opaca, stretta qua alle tempie. E quasi calvo, quasi calvo. — Ecco, com’è là.
Accennerà alla camera mortuaria.
Don Giorgio. Ma per lei dunque, signora; per come era per lei. Non morto per sé, se egli fino a poco fa viveva —
Donn'Anna. la sua vita, sí; ah, la sua vita sí, e quella che