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diana e la tuda 459


Tuda. Qua non resto — no no — non starò piú qua — tornerò soltanto per lavorare, quando potrò di nuovo. Ora me ne vado.

Jonella. E io, allora...

Tuda. Ma non puoi restare neanche tu, Jonè! — Non perché voglia levarti il pane, ché l’ho schifato io sí, e il nome che m’ha dato, e gli abiti, e su, la casa... (che vuoi che abbia piacere, io, a fare la signora! non avrei fatto quello che ho fatto, se avevo questo piacere!) — Ma voglio che te ne persuada! Vieni, guarda!

La tira verso la tenda; ne afferra un lembo e con una violenta bracciata la fa scorrere con gli anelli lungo il bastone a cui è sospesa. Appare, grande, sul cavalletto, la statua non finita.

Guarda! Guardala bene! guardale gli occhi! gli occhi! e ora guarda qua i miei vedi? vedi? sono i miei, là questi come me li stai vedendo ora da pazza e cosí, perché me li hanno fatti diventare loro cosí da pazza tutti e due!

indica Sirio e Sara.

— Ti pare che ci sia amore in questi occhi? Di’ di’?

Jonella. Mi pajono gli occhi di una gatta —

Giuncano. — fustigata! —

Tuda. Odio c’è, odio, per il supplizio che m’hanno dato loro due! — Non li aveva lei

indica la statua

prima, questi occhi — erano altri, i suoi occhi! Lui me li ha presi e glieli ha dati: guardala: — E quella mano là che tocca il fianco — la vedi? — era aperta, prima, quella mano! Vedi, ora? chiusa, serrata, a pugno. Me l’hanno fatta chiudere, serrare loro cosí, per resistere al supplizio — e la statua, vedi, anche lei — l’aveva aperta: ha dovuto chiuderla! — gliel’ho veduta chiudere! — non ha potuto farne a meno! Non è piú quella che lui voleva fare! — Sono io ora là, capisci? io — non puoi essere tu, Jonè, né altre! — Vattene! —

Sirio. Sí, sí, via! via! Basta!

Jonella. Per me! Io era venuta —