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padre, prendeste ad amarlo come un vero figliuolo. Se ora lo odiate di nuovo per un’altra gelosia —

Giuncano. — c’è quanto basta, mi pare, per non tollerare che seguitiate a parlarmene! Sono qua perché m’ha scritto di venire; non per stare a sentir voi.

Sara. Lo so. E so anche che cosa vi vuol dire.

Giuncano. Ditemelo, e me ne vado.

Sara. Eh, ma non lo so di certo; lo suppongo. S’è provato a lavorare con altre modelle —

Giuncano. — e non ha potuto! —

Sara. — perché s’è fissato! — Ne verrà una, adesso, che vale cento volte di più! E anche quelle altre che ha scartate, valevano tutte piú di quella!

Giuncano. Basta andare a guardare là

indica dietro la tenda, dov’è la statua

— per capire ciò che voi, del resto, capite benissimo —

Sara. — no no: io, per me —

Giuncano. — fingete di non capire —

Sara. — che non può piú fare a meno di lei? —

Giuncano. — che ormai non può piú finirla, quella statua, se non con lei —

Sara. Se è vero ciò che ha sempre detto...

Giuncano. Ma non è vero niente! E se n’accorge adesso che sente mancarsi tra il pollice e la creta il dono con cui lavorava —

Sara. — l’estro? tutt’altro! —

Giuncano. — ma che estro! il dono che lei faceva di sé, della sua vita, a quella statua!

Sara. Avrebbe dovuto odiarla —

Giuncano. — sí: la statua; se non fosse stata per lei l’unico modo di vivere davanti agli occhi di lui che, senz’intenderlo, se la bevevano e la trasformavano in quella creta. — Vorrebbe che io ora la inducessi a ritornare?

Sara. Suppongo.

Giuncano. Ma io la indurrei piuttosto a morire! — Sapete forse dov’è?

Sara. Come! Voi non lo sapete?

Giuncano. Io non lo so.

Sara. Neanche voi?