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diana e la tuda 437


nuda. Non cercate di deviare il discorso. Gli abiti adesso non c’entrano piú.

Sara. Ne avete fatto uno sfoggio...

Tuda. Per la vostra soperchieria.

Sara. Ah! mia? soperchieria? —

Tuda. — d’entrare qua da padrona, senz’averne il diritto.

Sara. Entrando, non ho mai sporto il capo, nemmeno per curiosità, a guardare dietro quella tenda.

Tuda. Oh, per me, quando siete entrata, tanto vale che veniate anche di là: non ho mica da vergognarmi di voi, per come sono fatta, grazie a Dio! — Volete anche questo? Ve lo potrei concedere. Ma io, concedere, capite? Perché qua, questo diritto, l’ho soltanto io.

Sara. Anche lui, suppongo.

Tuda. No: soltanto io. Non può obbligarmi nessuno a posare davanti a estranei. Voi, al massimo, vi potevate far dare da lui la chiave di su. Non questa.

Sara. Ho voluto proprio questa, invece. Dell’altra non so che farmene.

Tuda. Non avreste piú diritto neanche all’altra, del resto.

Sara. Neanche all’altra?

Tuda. Neanche. Perché vorrei vedere che direbbe lui, se io pur coi patti con cui m’ha sposata, sciolta d’ogni obbligo di fedeltà — facessi entrare, su da me, chi mi pare e piace.

Sara. Giusto. Difatti, su, torno a dirvi, non sono mai salita. Quella di qui me la son fatta dare appunto per i patti con cui v’ha sposata.

Tuda. Perché neppure da modella io fossi qua padrona? Badate, signora, che se voi mi sfidate, io posso imporgli di non fare entrare nello studio nessuno quando io sono in posa.

Sara. Provatevi!

Tuda. Ah sí? Mi sfidate proprio?

Sara. Vi dico di farlo.

Tuda. Vi ritenete tanto forte e sicura di lui? Pur sapendo ch’egli m’ha sposata perché vuole a ogni costo finire la sua statua?

Sara. Non è assolutamente imprescindibile che la finisca con voi.

Tuda. Se m’ha sposata per questo!