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diana e la tuda 411


Tuda (quasi cantando e ballando). Viva: occhi bocca braccia dita gambe — guarda — le muovo, le muovo e questa è carna, senti: calda!

Sirio. Ma che c’entri tu, come sei, viva? Dev’esser lei, la statua: non tu. — Marmo: la sua materia: non la tua carne.

Tuda. E perché hai bisogno di me, allora?

Sirio. Perché mi servi. Servi a me. Non a lei.

Indica la statua.

Giuncano. E non ne provi sgomento?

Sirio. Di che?

Giuncano. Di quello che fai! Quando te la vedi consistere davanti a poco a poco, che comincia ad assumere corpo per sé, non come tu vorresti, ma com’essa quasi da sé si vuole — altra, altra dall’immagine che tu ne avevi concepita — tanto che, per non lasciartene vincere, devi combattere con quell’ammasso di creta ancora quasi informe ma per sé vivo —

Sirio. — sí, sí, è vero —

Giuncano. — ebbene: quando riesci a imprimere in quella creta la tua immagine, la vita che moveva le tue dita e quella creta, la vita di quell’immagine ti resta lí davanti sospesa, senza piú movimento: atteggiata. E non ne provi lo stesso sgomento che si prova davanti alla morte, davanti a uno che poc’anzi era vivo, e ora è lí, che non si muove piú?

Tuda. È vero, è vero!

Giuncano. Ti si muta in ribrezzo, lo sgomento, pensando a ciò che tra poco ne avverrà —

Sirio. — già! mentre davanti a una statua —

Giuncano. — ti si muta in ammirazione, perché la statua è bella? —

Sirio. — viva — che non muore piú! —

Giuncano. — ma che viva, se vivere vuol dire morire ogni momento, mutare ogni momento, e quella non muore e non si muta piú! Morta per sempre là, in un atto di vita. La vita gliela dài tu, se la guardi un momento. Io non posso piú guardarle; ne ho orrore. Ah, grazie, immortale cosí!

Afferra Tuda per le braccia e la scuote

e non piú viva, non piú viva cosí!