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Sirio. T’è nata adesso che non lavori piú tutta codesta considerazione per le modelle?

Giuncano (lo guarda sdegnosamente, poi): Per le modelle? Sciocco!

Sirio. Se soffri tanto a vedere lavorare gli altri, perché te ne vieni qua da me?

Giuncano. Perché vorrei che tu almeno —

Sirio. — ah sí? — proprio io? non lavorassi piú?

Giuncano. Coi tuoi danari...

Sirio (con scatto d’ira). Finiscila una buona volta di sbattermeli in faccia, i miei danari!

Giuncano. Io? in faccia? al contrario! Vorrei che ne profittassi —

Sirio. — per non lavorare piú? —

Giuncano. — e li buttassi tu in faccia agli altri: a coloro che fanno le statue per vivere — perché non ne facessero piú!

Sirio. Sei proprio impazzito!

Giuncano (subito, con forza, alzandosi). Ah sí — e ne ringrazio Dio, se vuoi saperlo! — Questa mattina — ah, li ho qua ancora, come una vampa negli occhi — su ai Parioli — tutti quei papaveri — la gioja —

Sirio (stonato). che dici?

Giuncano. — non la volevano dare a nessuno — (chi li vedeva lassú?) — l’avevano, l’avevano per sé, la gioja d’avvampare al sole, cosí in tanti insieme — e il silenzio, su quel loro rosso scarlatto, pareva stupore — stupore.

Sirio (stordito). I papaveri?

Giuncano. Perché ora vedo! Da che sono impazzito come tu dici. Sapessi quante cose che prima non vedevo.

Tuda (ancora dietro la tenda). Ah papà Giuncano, peccato che sono cosí

sottintende: nuda;

verrei a darle un bacio! Ma glielo do qua, senta, sul mio braccio —

gemito

ah Dio, freddo come se fosse morto.

Sirio (a Giuncano). Insomma, te ne vai? vuoi lasciarmi lavorare?

Tuda. Non se ne vada, no, Maestro, non se ne vada!