e subito riprende a cantare, ma a stento, lottando con l’affanno che le è dato anche dalla commozione di sentire se stessa che canta:
«Col rio destino in guerra, È sola speme un cor (tre volte) — un cor — al Trovator...»
Non posso piú cantare... mi... mi manca il fiato... il cuore... il cuore mi dà l’affanno... non canto piú da tanti anni... — Ma forse a poco a poco il fiato, la voce mi rivengono... — Dovete sapere che questo Trovatore è fratello del Conte di Luna — sí — ma il Conte non lo sa, e non lo sa nemmeno lui, il Trovatore, perché fu rubato da una zingara quando era bambino. È una storia terribile, state a sentire! La racconta nel secondo atto la stessa zingara, che si chiama Azucena. Sí, era mia, era mia, la parte d’Azucena. Rubò il bambino, questa Azucena, per vendicare la madre bruciata viva, innocente, dal padre del Conte di Luna. Sono vagabonde che leggono la ventura, le zingare, e ci sono ancora, e hanno fama veramente che rubino i bambini, tanto che ogni mamma se ne guarda. Ma questa Azucena il figlio del Conte lo ruba, come v’ho detto, per vendicare la madre, e gli vuol dare la stessa morte che ha avuto la madre innocente; accende il fuoco, ma nel furore della vendetta, quasi pazza, scambia il suo proprio figlio per il figlio del Conte e brucia il suo proprio figlio, capite? il suo proprio figlio!... «Il figlio mio... il figlio mio...» Non posso, non posso cantarvelo... Voi non sapete che cosa è per me questa sera, figliuole mie... Proprio Il Trovatore... questa canzone della zingara... mentr’io, una notte, la cantavo con tutti attorno...
Canta tra le lagrime:
«Chi del gitano la vita abbella? La zingarella!»
mio padre, quella notte, mio padre... il vostro nonno... ci fu riportato a casa tutto insanguinato... e aveva accanto una specie di zingara... e quella notte, quella notte, figliuole mie, si compí, si compí il mio destino... il mio destino...