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298 | maschere nude |
L’attrice caratterista. «— Fu imprigionata nella piú alta casa del paese. Serrata la porta, serrate tutte le finestre, vetrate e persiane: una sola, piccola, aperta alla vista della lontana campagna e del mare lontano. Di quel paese, alto sul colle, non poteva vedere altro che i tetti delle case, i campanili delle chiese: tetti, tetti che sgrondavano chi piú e chi meno, tesi in tanti ripiani, tegole, tegole, nient’altro che tegole. Ma solo la sera poteva affacciarsi a prendere un po’ d’aria a quella finestra.»
Nella parete di fondo sifa trasparente una piccola finestra, come velata e lontana, da cui traspare un blando chiarore lunare.
Nenè (dal bujo, piano, contenta, con tono di maraviglia infantile, mentre da lontano lontano s’udrà un suono fievole, come d’una serenata remota). Uh, la finestra, guarda, davvero la finestra...
L’attore brillante (piano, dal bujo anche lui). Eh, c’era; ma chi l’ha illuminata?
Dorina. Zitti!
La prigioniera è rimasta immobile. La madre ripiglia a dire, sempre come se leggesse:
L’attrice caratterista. «Tutti quei tetti, come tanti dadi neri, le vaneggiavano sotto, nel chiarore che sfumava dai lumi delle strade anguste del paese in pendío; udiva nel silenzio profondo delle viuzze piú prossime qualche rumor di passi che facevano l’eco; la voce di qualche donna che forse aspettava come lei; l’abbajare d’un cane e, con piú angoscia, il suono dell’ora dal campanile della chiesa piú vicina.
Ma perché séguita a misurare il tempo quell’orologio?
A chi segna le ore?
Tutto è morto e vano.»
Dopo una pausa, si sentono cinque tocchi di campana, velati, lontani. Le ore. Compare, fosco, Rico Verri. Rincasa adesso. Ha il cappello in capo; il bavero del soprabito alzato, una sciarpa al collo. Guarda la moglie, là sempre immobile sulla sedia; poi guarda, sospettoso, la finestra.