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volte a due miei colleghi, mandando all’uno una prima volta, sei personaggi sperduti, in cerca d’autore, che misero la rivoluzione sul palcoscenico e fecero perdere la testa a tutti; e presentando un’altra volta con inganno una commedia a chiave, per cui l’altro mio collega si vide mandare a monte lo spettacolo da tutto il pubblico sollevato; questa volta non c’è pericolo che la faccia anche a me. Stiano tranquilli. L’ho eliminato. Il suo nome non figura nemmeno sui manifesti, anche perché sarebbe stato ingiusto da parte mia farlo responsabile, sia pure per poco, dello spettacolo di questa sera.
L’unico responsabile sono io.
Ho preso una sua novella, come avrei potuto prendere quella d’un altro. Ho preferito una sua, perché tra tutti gli scrittori di teatro è forse il solo che abbia mostrato di comprendere che l’opera dello scrittore è finita nel punto stesso ch’egli ha finito di scriverne l’ultima parola. Risponderà di questa sua opera al pubblico dei lettori e alla critica letteraria. Non può né deve risponderne al pubblico degli spettatori e ai signori critici drammatici, che giudicano sedendo in teatro.

Voci, nella sala. Ah no? Oh bella!

Il dottor Hinkfuss. No, signori. Perché in teatro l’opera dello scrittore non c’è piú.

Quello della galleria. E che c’è allora?

Il dottor Hinkfuss. La creazione scenica che n’avrò fatta io, e che è soltanto mia.
Torno a pregare il pubblico di non interrompermi. E avverto (giacché ho visto qualcuno dei signori critici sorridere) che questa è la mia convinzione. Padronissimi di non rispettarla e di seguitare a prenderla ingiustamente con lo scrittore, il quale però, concederanno, avrà pur diritto di sorridere delle loro critiche, come loro adesso della mia convinzione: nel caso, s’intende, che le critiche saranno sfavorevoli; perché, nel caso opposto, sarà ingiusto invece lo scrittore prendendosi le lodi che spettano a me.
La mia convinzione è fondata su solide ragioni.
L’opera dello scrittore, eccola qua.

Mostra il rotoletto di carta.