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Leonardo. Verrò, verrò, non dubitare. Addio.

Elena via. Leonardo rimane un po’ su la soglia dell’uscio. Gli s’avvicina dal corridojo interno l’uscere.

L’Uscere. Faccio entrare?

Leonardo. Sí.

Attende un po’ sulla soglia, poi, all’appressarsi di Gugliemo Groa e del D’Albis, che conversano fra loro, viene ad appoggiarsi alla scrivania.

Guglielmo. Io, caro signore, povero provinciale, sono allocchito, ecco, proprio allocchito! Cose grandi a Roma, cose grandi! E anche lui, Nitto Ruvo è diventato grande... Ma, per me, se vuol essere chiamato, si chiama sempre Nitto...

Salutando Leonardo:

Caro genero!

D’Albis (sorridendo). Come? come? Nitto?

Guglielmo. Sissignore. Benedetto, Nitto: noi, laggiú, diciamo Nitto. Compagni di scuola, si figuri. Ma a un certo punto, io, impastato di creta, mi accorsi che se volevo restare uomo giudizioso, dovevo chiudere i libri. Li chiusi. Scrivo, come dice mio genero, privilegio con due g, è vero, ma la testa, signor mio, un orologio! Nitto Ruvo invece continuò a studiare, e, povero infelice, ecco qua che lo stanno facendo ministro.

D’Albis (scoppia a ridere). Oh bella! bella! Per lei è un povero infelice?

Guglielmo. Lo stanno facendo ministro... Muore male, glielo dico io. Ma amico, sa! amico mio! amicone...Non ne dico male!

D’Albis. Eh, lo so che è amico suo. Il Ruvo mi ha parlato bene di lei.

Guglielmo. Ah, lui parla bene, lo so! Parola facile, elegante... A sentirlo, pare che, come niente, il mondo tra le sue mani, in quattro e quattr’otto, lo vuole tondo? tondo! lo vuole uovo? uovo! Però, signore mio, io ho i peli bianchi. Gira gira, il perno è uno! E con ciò, badi, non dico che non auguro a Nitto Ruvo di diventare ministro. Per me, anche