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D’Albis. Come come? Non avete letto il romanzo di vostro marito? Ah! quest’è bella!

Livia. Ma so che voi ne avete detto molto male.

D’Albis. Non vuol dire. Questo non vuol dire. Avevo anch’io allora la malinconia d’appartenere a quella... sapete come un imperatore chiamava i letterati? — «categoria d’oziosi che per professione spargono il malumore tra la gente». Verissimo! Io, per professione, scrivevo male di tutto e di tutti. E m’ero fatto un bel nome, sapete? Peccato, bei tempi! Ora, tanto io che vostro marito, per l’arte, morti e sepolti. Voi però, coi vostri denari e con un po’ d’indulgenza, perdonando, vostro marito dovreste risuscitarlo. Sí, sí, e levarmelo dai piedi, per carità! Scriva versi, scriva romanzi! Il giornalista, vi assicuro, lo fa pessimamente! Si rovina lui, rovina il fegato a me... Ma voi volete andare.

Livia. Sí, ecco... devo andare.

D’Albis. V’ho trattenuta in piedi tutto questo tempo... Colpa vostra, potevamo...

Livia. Ritornerò piú tardi. Mi raccomando il biglietto.

D’Albis. Non dubitate. V’accompagno.

Fanno per uscire. Entra un tipografo con un rotolo di bozze in mano. D’Albis al tipografo:

Si entra cosí?

Il tipografo. L’uscere non c’era. Non c’è nessuno...

D’Albis. Le bozze impaginate?

Il tipografo. Sissignore. Eccole.

D’Albis. Ecco, vengo subito,

a Livia:

Scusate.

La lascia passare avanti, e via con lei. Il tipografo svolge il rotolo delle bozze e le stende su la scrivania. Ritorna, poco dopo, il D’Albis.

Sono tutte?

Il tipografo. Seconda e terza pagina.

Per il corridojo si vede passare, attraverso l’uscio aperto, il Ducci.

D’Albis (chiamando). Pss! Ducci! Ducci!

Ducci (tornando indietro e affacciandosi all’uscio). Eh?