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il caffè del commendatore. 221

messo lei un po’ di freno a tante larghezze! Adesso veniva il peggio.

Un galantuomo innominato, “un berechin, ghe digo mi„, aveva soffiato nell’orecchio di Zaneto che non lo si creava “cossa xelo„, ossia senatore, per la cattiva riputazione delle sue finanze e ch’egli per esser sicuro della nomina, dovrebbe regalare “mi no so quanto a mi no so chi„, ai cronici, o agli orfani, o ai derelitti, o ai tignosi, “a quelo che ghe comodarà a lu, mi digo„. Figurarsi!

Sì, don Giuseppe si rammaricava di questi guai ma non vedeva quale rimedio ci potesse recar egli, con qual veste si sarebbe presentato al marchese per sciorinargli un sermone.

“Ma Lei, marchesa?„ diss’egli. “Come potrei riuscire io a smuoverlo se non ci riesce Lei?„

La marchesa scosse il capo, sospirò, confessò la propria impotenza: “mi no, sala, don Giuseppe. Bonissimo, ma no se intendemo„.

Infatti se la eloquenza della povera vecchia signora era scarsa e grossa, quella di suo marito era invece delle più sottili e pronte. Ella vedeva in ogni questione le diritte ragioni della semplice giustizia, egli ci vedeva le ragioni contorte di una giustizia che facesse alle braccia con l’opportunità. Ella pigliava i propri argomenti in un’angusta cer-