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ovali, aperte, irritate, con delle sopracciglia aggrottate, lucenti e nere, tendenti a ravvicinarsi. Queste altere sopracciglia non temperavano punto il bagliore di due pupille piccole e nere, d’altrettanto più petulanti che erano fisse — direi quasi rapprese — sopra due globi, il cui bianco aveva del giallo di avorio con delle piccole serie rosse ed azzurre. Il tuono affoscato dell’orbita augumentava la profondità di quello sguardo di acciaio, immobile e ghiacciato come quello del tigre, una profondità iscandagliabile. L’insieme di questa testa esprimeva la violenza animale contenuta dalla volontà, degli appetiti feroci repressi dalla dignità del pensiero, l’ambizione accasciata sotto il mantello di piombo della rassegnazione — un essere abortito infine a causa degli ostacoli sociali che lo avevano retrospinto in lui stesso.

Non occorreva di vedere i residui del suo abbigliamento per indovinare che Don Diego Spani era prete.

Questo fatale carattere lo aveva afferrato nella sua morsa inesorabile e l’aveva contraffatto o fatto a suo modo.

Ciascuno dei suoi lineamenti portava le tracce di una violenza interna. Egli aveva dovuto ripiegare la larga stoffa che la natura gli aveva donata; egli aveva dovuto fare un gatto del leone. Don Diego era una mina carica a cui si era soppressa la miccia. La natura lo aveva dotato di un’attività potente, dell’ossatura fisica degli uomini di azione; il bisogno ne aveva abborracciato un prete di provincia. La sua mente poteva com-