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guardava quell’immenso volume di acque livide che si volgono maestose verso l’oriente; ma d’un tratto le parve d’essere invece a Cividale a contemplare dal ponte gigantesco l’azzurra corrente del Natisone che passa inabissata sotto i due archi ineguali, e vedeva il passo su cui l’ardito architetto non dubitò di basare la superba sua mole; e le sponde screpolate coperte di lunga erba e di cespugli; e le case antichissime che paiono doversi staccare da un momento all’altro e precipitare, e le guglie degli svelti campanili che ricordano con la loro architettura l’epoca longobarda. Le pareva di udire i canti delle lavandaie che inginocchiate sul greto del fiume sbattevano in cadenza i loro panni. Ma di nuovo la scena si cangiava, come avviene nei sogni, ed era sull’Isonzo e vedeva le verdi sue acque correre spumeggiando tra le rive ridenti sparse di pittoreschi villaggi, di villaggi noti, che riconosceva con un palpito sempre crescente; finchè l’infinita ineffabile nostalgia della patria la fece dare in un dirotto pianto.

Un’altra volta, nel tempo delle vacanze estive, passeggiava di sera insieme con lo zio sull’alto dei bastioni. Da una parte stava la rumorosa città con le sue ampie vie illuminate sontuosamente a gaz, affollate di popolo festante, percorse da eleganti equipaggi; dall’altra il silenzio delle fosse deserte e qualche raro lume perduto nel verde degli spalti; più lungi linee di fanali degl’immensi sobborghi, alcuni dei quali si specchiavano nell’onda quieta del fiume. Una nebbia leggiera a guisa di velo trasparente avvolgeva tutta la vasta capitale e lasciava trapelare sovr’essa i freddi raggi della pallida luna. Ella fissò quel disco vaporoso e da un istante all’altro le parve di vederlo brillare dello schietto lume argenteo che illumina le nostre