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L’avviso certo e preciso della vera piccola congiura ordita contro la sua vita il Rossi lo avrebbe avuto a tempo, se l’uomo, che ne aveva potuto penetrare, per la pettegola imprudenza di uno dei sette congiurati, il segreto, non fosse stato un pusillanime, il quale, dopo aver tentato — almeno come afferma lui, perchè chi sa se lo tentò davvero? — di penetrare fino al Rossi e fino al Massimo, durante tutto il giorno 14, si risolvette, alla fine, a lasciare, a tarda notte del 14, a quest’ultimo un biglietto... anonimo, a cui il Massimo — così apparirebbe almeno dalla sua deposizione — non diede alcuna importanza.

Ora, siccome al Rossi, dal servizio confidenziale della polizia, di vere trame organizzate non resultava che quelle della Salita di Martorio a cui egli, ragionevolmente, non dava una grande importanza e alle quali pensava di avere sufficientemente provveduto con gli arresti e con le ammonizioni dei più attivi promotori; così è naturale che egli, pur preoccupandosi della gravità della situazione, si mostrasse tranquillo e securo.

Ma la sua tranquillità fu seriamente turbata alle 11 antimeridiane del giorno 15, quando si vide comparire dinanzi alla Consulta il cavalier Francesco Rufini, che era minutante — una specie di capo-sezione, come si direbbe oggi — alla direzione generale di polizia, il quale gli riferì le informazioni avute, allora allora, alle dieci e mezza, dal comandante degli agenti di polizia Alessandro Rosalbi. Costui recatosi, con tutti gli altri agenti, che erano circa venti, sulla piazza della Cancelleria, assai di buon’ora, aveva notato, con sempre crescente inquietudine, numerosi capannelli di civici, di borghesi, di popolani che si andavano formando sulla piazza e che venivano, man mano, ingrossando. In quei capannelli si discorreva, a voce alta e con molta concitazione, contro il ministero e specialmente

    Maria Boncompagni Massimo Duchessa di Rignano, figlia del fu Principe Luigi, di anni trentotto, esaminata nella sua villa il 5 luglio 1852, depose «che in casa della Duchessa di Nemi la sera del 14 intese vociferare di tumulti all’apertura della Camera all’indomani e udì i ministri sarebbero stati fischiati. Scrisse alle 10 del mattino successivo 15 novembre e spedì un biglietto al Conte Rossi nel quale gli domandava se aveva informazioni dalla polizia, esponendogli le voci che correvano. Il Rossi rispose immediatamente con altro biglietto, che tuttora conservo, assicurandomi in poche parole che non vi era affatto da temere e che non dovevano calcolarsi lo ciarle degli stolti, come esso si esprimeva» (Processo cit., foglio 388l a 3884).