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XVI.

Dalla Mora si scende piú facilmente a Belbo che non da Gaminella, perché la strada di Gaminella strapiomba sull’acqua in mezzo a rovi e gaggie. Invece la riva di là è fatta di sabbie, di salici e canne basse erbose, di spaziosi boschi di albere che si stendono fino ai coltivi della Mora. Certi giorni di quelle canicole, quando Cirino mi mandava per roncare o far salici, io lo dicevo ai miei soci e ci trovavamo sulle rive dell’acqua — chi veniva con la cesta rotta chi col sacco, e nudi pescavamo e giocavamo. Correvamo al sole sulla sabbia rovente. Era qui che mi vantavo del mio soprannome di Anguilla, e fu allora che Nicoletto per l’invidia disse che ci avrebbe fatto la spia e cominciò a chiamarmi bastardo. Nicoletto era il figlio di una zia della signora, e nell’inverno stava in Alba. Ci prendevamo a sassate, ma dovevo stare attento a non fargli male, perché la sera non avesse lividi da mostrare alla Mora. Poi c’erano le volte che il massaro o le donne lavorando nei campi ci vedevano, e allora cosí nudo dovevo correre a nascondermi e sbucare nei beni tirandomi su i calzoni. Un pugno in testa e una parola del massaro non me li levava nessuno.

Ma questo era niente rispetto alla vita che faceva adesso quel Cinto. Suo padre gli era sempre addosso, lo sorvegliava dalla vigna, le due donne lo chiamavano, lo maledicevano, volevano che invece di fermarsi dal Piola tornasse a casa con l’erba, con pannocchie di meliga, con pelli di coniglio, con buse. Tutto mancava in quella casa. Non mangiavano pane. Bevevano acquetta. Polenta e ceci, pochi ceci. Io so cos’è, so che cosa vuol dire zappare o dare il solfato nelle ore bruciate, con l’appetito e con la sete. So che la vigna


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