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XV.

Non so se comprerò un pezzo di terra, se mi metterò a parlare alla figlia del Cola — non credo, la mia giornata sono adesso i telefoni, le spedizioni, i selciati delle città — , ma anche prima che tornassi mi succedeva tante volte uscendo da un bar, salendo su un treno, rientrando la sera, di fiutare la stagione nell’aria, di ricordarmi che era il tempo di potare, di mietere, di dare il solfato, di lavare le tine, di spogliare le canne.

In Gaminella non ero niente, alla Mora imparai un mestiere. Qui piú nessuno mi parlò delle cinque lire del municipio, l’anno dopo non pensavo già piú a Cossano — ero Anguilla e mi guadagnavo la pagnotta. Sulle prime non fu facile perché le terre della Mora andavano dalla piana del Belbo a metà collina e io, avvezzo alla vigna di Gaminella dove bastava Padrino, mi confondevo, con tante bestie e tante colture e tante facce. Non avevo mai visto prima lavorare a servitori, e fare tante carrate di grano, tante di meliga, tanta vendemmia. Soltanto le fave e i ceci sotto la strada li calcolavamo a sacelli. Tra noialtri e i padroni eravamo in piú di dieci a mangiare, e vendevamo l’uva, vendevamo il grano e le noci, vendevamo di tutto, e il massaro metteva ancora da parte, il sor Matteo teneva il cavallo, le sue figlie suonavano il piano e andavano e venivano dalle sarte a Canelli, l’Emilia li serviva in tavola.

Cirino m’insegnò a trattare i manzi, a cambiargli lo strame non appena stallavano. — Lanzone vuole i manzi come spose, — mi disse. M’insegnò a strigliarli bene, a preparargli il beverone, a passargli la forcata giusta di fieno. A San Rocco li portavano alla fiera e il massaro ci guadagnava i suoi marenghi. In primavera, quando spargemmo il letame, conducevo io il carretto fumante. Con la bella sta-


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