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VII.
Intanto dalla riva veniva lo schianto di una roncola, contro il legno, e a ogni colpo Cinto batteva le ciglia.
— È il Pa, — disse, — è qui sotto.
Io gli chiesi perché prima teneva chiusi gli occhi mentre io lo guardavo e le donne parlavano. Subito li richiuse, d’istinto, e negò di averlo fatto. Mi misi a ridere e gli dissi che facevo anch’io questo gioco quand’ero ragazzo — cosí vedevo solamente le cose che volevo e quando poi riaprivo gli occhi mi divertivo a ritrovare le cose com’erano.
Allora scoprí i denti contento e disse che facevano cosí anche i conigli.
— Quel tedesco, — dissi, — sarà stato tutto mangiato dalle formiche.
Un urlo della donna dall’aia, che chiamava Cinto, voleva Cinto, malediceva Cinto, ci fece sorridere. Si sente spesso questa voce sulle colline.
— Non si capiva piú come l’avevano ammazzato, — disse lui. È stato sottoterra due inverni...
Quando finimmo tra le foglie grasse, i rovi e la menta del fondo, il Valino alzò appena la testa. Stava troncando con la roncola sul capitozzo i rami rossi d’un salice. Come sempre, mentre fuori era agosto, quaggiú faceva freddo, quasi scuro. Qui la riva una volta portava dell’acqua, che d’estate faceva pozza.
Gli chiesi dove metteva i salici a stagionare, quest’anno ch’era cosí asciutto. Lui si chinò a far su il fastello, poi cambiò idea. Rimase a guardarmi, rincalzando col piede i rami e attaccandosi die-
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