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precipizio. Non avevo mai visto casolari meglio nascosti: dalla strada si vedevano soltanto spighe e i versanti lontani.

Otino — non mi chiese il mio nome — mi portò sotto le ciliege e mi disse se avevo sete. Piegammo un ramo e lo spogliammo. Lui sparava i noccioli schioccando le labbra e mi chiese se andavo dalla parte di Agliano.

— Questa mattina si vedeva il fumo.

Dissi che andavo per Rocchetta, nella valle del Belbo, e venivo da Chieri. Otino saltò sulla pianta, con quelle gambe e braccia lunghe, e cominciò a buttar giú ciocche.

— Dov’è Rocchetta? — diceva.

— Qui, paesi ne bruciano?

Non mi rispose e fischiettava. Fischiettava il segnale di attenti. — Siete stato soldato, — dissi allora.

— Dovrei, — mi rispose.

Passai la notte nel fienile, assordato dai grilli. L’aria era fredda, la nebbia o nuvole che fossero coprivano i campi. Mi seppellii sotto la paglia. Nel buio vedevo l’arcata del cielo meno nera, e stavo pronto a rintanarmi dietro il fieno al primo allarme. Non tutti hanno un letto di fieno, mi dicevo.

Mi svegliò Otino, staccando arnesi da un pilastro. C’era una luce che accecava, nebbia e sole. — Non ci arrivate di quest’oggi, — mi disse. Gli chiesi del pane. Andammo tra le case strapiombanti sulla vallata. Chiamò una donna, che portò due pagnotte. — È permesso lavarsi la faccia? — gli chiesi.

Tirammo su il secchio dal pozzo. Nella luce viva della nebbia, vidi bene la pelle abbronzata di Otino, i suoi tratti di uomo. — Quella è la strada, — mi spiegò. — Tenete sempre il sentiero che scende, trovate la ferrata; trovate il Tinella, vi buttate nei salici... — Pensai quando giocavo con Dino.


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